Di Riccardo Mastini e Lapo Sermonti
Si parla tanto di transizione ecologica ma ad oggi nessuna forza politica ha ancora formulato una chiara proposta di come conciliare la difesa dell’ambiente con quella della giustizia sociale. Una transizione ecologica socialmente giusta implica innanzitutto la presa di coscienza che la crisi ambientale è un colossale fallimento del libero mercato. Dopo decenni di sistematico svuotamento della pubblica amministrazione, una politica economica ed industriale che abbia l’ambizione di fornire soluzioni alle problematiche urgenti poste dall’emergenza climatica non può limitarsi a interventi di natura temporanea per correggere i fallimenti del mercato. Si pone infatti la necessità di un ritorno alla programmazioneeconomica e alla proprietà pubblica nei settori strategici (come ad esempio quello dell’energia e dei trasporti) se si intende governare il processo di mutamento che investirà nei prossimi anni l’organizzazione produttiva e la divisione internazionale del lavoro, garantendo al contempo la piena occupazione e salari dignitosi.
La transizione ecologica deve essere finanziata dal pubblico poiché la maggior parte degli investimenti necessari sono costosi e non remunerativi nel breve periodo: ciò li rende poco appetibili per un settore privato altamente finanziarizzato e votato alla ricerca del profitto immediato. Inoltre la transizione deve essere pianificata poiché la maggior parte delle infrastrutture da trasformare (rete ferroviaria, idrica, elettrica, ecc.) sono dei monopoli naturali e quindi la presenza di un unico operatore è più efficiente di una pluralità d’imprese. Il coordinamento da parte del settore pubblico risulta inoltre indispensabile per garantire che l’insieme dei molteplici interventi necessari rientrino all’interno di un disegno economico organico e coerente.
Se vogliamo che la transizione ecologica sia politicamente accettabile non possiamo prescindere dal mettere la giustizia sociale al centro della nostra azione. È preoccupante che dal 1990 ad oggi in Italia le disuguaglianze in termini di CO2 siano aumentate: l’impronta di carbonio pro capite media del 50% più povero è diminuita del 32%, quella del 10% più ricco è diminuita solo del 10%, mentre quella dell’1% più ricco è addirittura aumentata del 7%. Per impedire poi che il riscaldamento globale superi di 1,5°C i livelli preindustriali, l’IPCC raccomanda che entro il 2030 le emissioni medie pro capite non eccedano 2,5 tonnellate l’anno. Al momento in Italia il 10% più ricco ha in media un’impronta pro capite di carbonio 10 volte superiore all’obiettivo di riduzione indicato. Quanto al 50% più povero, mediamente la sua impronta pro capite è solo doppia rispetto all’obiettivo da raggiungere. Dunque servono politiche di riduzione diversificate per classe sociale. Nel caso dei redditi alti l’obiettivo è ridurre i consumi in senso lato, mentre nel caso delle fasce della popolazione più povere l’obiettivo è aiutare le famiglie a condurre una vita dignitosa pur mantenendo la propria impronta entro limiti di sostenibilità.
Nel valutare quali misure assumere per porre un freno alle emissioni di anidride carbonica, occorre considerare che nella nostra società c’è chi può decidere come vivere e chi invece lo deve subire. Chi si trova in povertà non può scegliere se vivere in centro o in periferia, se mangiare biologico o cibo spazzatura, se avere la casa coibentata o ad alta dispersione termica. Deve semplicemente adottare lo stile di vita meno dispendioso. Che non è automaticamente il meno impattante. E a dimostrazione di come per i più poveri non esista una diretta correlazione fra impronta di carbonio e responsabilità, c’è che molti di loro hanno chiaro che investire in incrementi di efficienza per la propria casa, per i propri elettrodomestici e per la propria vettura può fare la differenza. Molti sanno che a parità di consumi, una famiglia che vive in una casa ben coibentata ed utilizza elettrodomestici e veicoli ad alta efficienza energetica può arrivare a produrre fino a tre volte meno emissioni climalteranti rispetto ad una famiglia costretta ad utilizzare beni a bassa efficienza. Ma pur sapendolo non investono in innovazione perché non hanno i soldi per farlo.
È sempre più evidente che per ridurre la nostra impronta di carbonio, dobbiamo rivedere in profondità cosa e come produciamo oltre a cosa e come consumiamo. La lista dei cambiamenti da introdurre è sicuramente molto lunga e comprende un diverso modo di produrre energia elettrica, il ridimensionamento e la riformulazione della nostra mobilità, nuovi assetti produttivi improntati all’economia circolare, eliminazione dei consumi superflui, un nuovo modo di costruire le nostre case, riduzione e riciclo dei rifiuti. Cambiamenti possibili solo con un radicale ripensamento, non solo della nostra impostazione culturale, della nostra organizzazione economica, della nostra tecnologia, ma anche della nostra politica fiscale e della spesa pubblica. Rispetto a questi ultimi due aspetti, le grandi parole d’ordine devono essere: tassazione dei prodotti inquinanti con misure compensative per i più poveri, potenziamento dei servizi pubblici, tassazione dei ricchi. Tre percorsi che devono procedere di pari passo per impedire che la sostenibilità si trasformi in un castigo per i più poveri.
È dimostrato, ad esempio, che i più poveri hanno spesso impronte di carbonio sproporzionate rispetto al loro tenore di vita a causa delle inefficienze dovute alla mancanza dei servizi pubblici nel proprio territorio o per l’impossibilità di effettuare investimenti di miglioramento termico ed elettrico alle proprie abitazioni. Per cui una sana politica di abbattimento dell’anidride carbonica passa anche attraverso l’elargizione di contributi per la ristrutturazione edilizia a favore di tutte le famiglie al di sotto di certi redditi, attraverso il rafforzamento del trasporto pubblico affinché tutte le periferie siano ben raccordate con i principali centri urbani, attraverso la garanzia, anche nei luoghi più remoti, di tutti i servizi essenziali: scuole, negozi, ambulatori medici, pronti soccorso, biblioteche, acqua e connessione internet. La dimostrazione di come i problemi ambientali si risolvono con scelte sociali.