di Lapo Sermonti
Uno degli argomenti principali degli ultra-liberali per evitare interventi degli Stati è che ‘il mercato è in grado di auto-regolarsi’. Ovvero che sarà il consumatore (la domanda) ad influenzare il produttore (l’offerta), obbligandolo a offrire beni e servizi allineati all’interesse, appunto, del consumatore. Da giugno di quest’anno però, il mercato dell’energia fossile (di gran lunga il maggior responsabile delle emissioni ‘climalteranti’) sta abbandonando anche solo la parvenza di voler mostrare un cambio di atteggiamento rispetto alla crisi climatica (1). Di seguito quattro recenti pessime notizie:
– Nel 2021 Shell è stata condannata per non aver rispettato gli obbiettivi climatici globali e il tribunale dell’Aia le ha imposto un rigido piano di decarbonizzazione (2). Ma a giugno di quest’anno, con i prezzi del petrolio e gas alle stelle, l’AD Wael Sawan ha rinnegato gli impegni ad una svolta rinnovabile e oggi le azioni della compagnia petrolifera, la più grande al mondo tra quelle private, sono sui massimi di sempre (3);
– Due settimane fa la Exxon aveva acquistato l’operatore di shale oil Pioneer per 58 miliardi di dollari. Da notare che lo shale oil è palesemente il peggior metodo di estrazione di combustibili fossili, che aggiunge alle emissioni dovute alla combustione immensi danni ai suoli e ai paesaggi, uno spropositato quantitativo di scarti da trattare, e un grandissimo inquinamento idrico;
– Oggi, Il colosso petrolifero statunitense Chevron (che non ha mai neanche millantato l’intenzione di cambiare strategia sulle emissioni) ha comprato il produttore Hess per 53 miliardi di dollari in azioni. Hess è particolarmente presente in Guayana, un paradiso amazzonico dove circa dieci anni fa hanno scoperto nuovi importanti giacimenti;
– ENI non è da meno dato che ha messo nel cassetto il suo già modesto piano ‘verde’ e ritirato fuori i vecchi progetti. Ha infatti da poco acquisito il Neptune Energy Group, società specializzata nell’esplorazione e produzione di gas in Europa occidentale, Nord Africa, Indonesia e Australia. Un’operazione da 5 miliardi di dollari, in perfetto allineamento con lo scenario ‘business as usual’della compagnia italiana.
Sappiamo che più posticipano gli interventi per de-carbonizzare, maggiori dovranno essere gli sforzi, ma negli Stati Uniti, dove non ci sono accise, il gallone di benzina costa ancora meno di un gallone di CocaCola. Allora come è possibile competere con una fonte d’energia cosi a basso costo?
E qui finalmente una bella notizia: l’energia prodotta dal sole costa ufficialmente meno dell’energia prodotta da ogni altra forma di energia (4). E tutte le stime ci dicono che grazie all’ottimizzazione dei sistemi produttivi cinesi il prezzo dei pannelli fotovoltaici è ancora destinato a scendere nei prossimi 7 anni. A questo punto appare lecito temere che un’ondata di pannelli coprirà il nostro territorio rubando suolo alla produzione agricola e ai nostri paesaggi. Ma non è così. Secondo l’ISTAT in Italia abbiamo circa 9 mila km2 di aree industriali dismesse (la superfice dell’Umbria!) e per le nostre necessità di fotovoltaico non ne servirebbero che 600km2 (il 6.6%). Riassumendo: l’urgenza c’è, lo spazio c’è e adesso è pure conveniente.
La Treccani ci riassume numerosi studi con la seguente frase: “l’autoregolamentazionedel mercato è favorevole rispetto a ipotesi di intromissione della normazione pubblica, soprattutto in termini di migliore conoscenza tecnica dei problemi da affrontare e di maggiore flessibilità e capacità di adattamento al mutare delle esigenze.”(5) Ma di fronte all’abbassamento del costo del fotovoltaico perchè il mercato occidentale continua ad investire cosi illogicamente nell’estrazione di altre energie fossili mettendo cosìseveramente a rischio il futuro del pianeta e della nostra specie? È questa la “migliore conoscenza tecnica dei problemi da affrontare? É questo il loro “adattamento al mutare delle esigenze”? e se fosse l’industria fossile con le sue lobby a sabotare l’avvento delle rinnovabili? Insomma, siamo ancora autorizzati a pensare che il mercato sia in grado di autoregolarsi? La risposta è no. E mentre paesi come la Cina raddoppiano annualmente la loro capacità di produrre energia rinnovabile (oltretutto abbassando i costi per tutti gli altri), gli Stati Uniti sono ancora fermi al palo e le proiezioni non ci permettono di sperare che la soluzione per uscire dal baratro arriverà da quel lato del pianeta: anzi, da lì arrivano i maggiori rischi.
Appare dunque necessaria una prova di forza da parte dello Stato. Non è sufficiente annunciare obiettivi se poi questi non sono rispettati. Bisogna mettere seri vincoli alle aziende che estraggono fossili, e se poi non li rispettano valutare conseguenze gravi:non solo multe, ma chiusura di impianti e esproprio dei beni per produrre rinnovabili come stanno cominciando ad invocare anche negli Stati Uniti (6). Bisogna vietare alle aziende di investire nell’esplorazione di altri giacimenti o di investire i ricchi profitti nel riacquisto dei propri pacchetti azionari – stop buyback (7) -, indirizzandoli invece nel rafforzamento della rete di distribuzione dell’elettrico. E poi quattro passi elementari:
– Consumare meno, aumentando il prezzo dell’energia a chi ne consuma troppa in base al censo;
– Convertirci a sorgenti di energia rinnovabile, elettrificando il nostro sistema e aumentando la velocità della progettualizzazione dei nuovi impianti anche grazie alle nuove tecnologie, come ad esempio l’intelligenza artificiale;
– Rafforzare i sistemi di accumulo e distribuzione di energia;
– Quando la tecnologia sarà pronta (e ci siamo quasi), scalarla, e catturare la CO2 in eccesso dall’atmosfera, per accelerare il processo di decarbonizzazione. Questo potrà avvenire solo dopo aver regolamentato il mercato, non prima (come invece invoca l’industria fossile per continuare ad inquinare).
La politica in questo senso è fondamentale. Se non propongono un programma che includa queste azioni ai primi punti, votate per qualcun’altro.