Sociale

Dalla zombificazione dell’animo giovanile alla rinascita dei progetti di vita

Pubblicato il 10 Dicembre 2023, scritto da schierarsi

Una costellazione di parole per progettare il Welfare con i giovani e “capovolto” del domani

di Francesco Paolo Romeo *

La lettura critica del Rapporto annuale 2023, redatto e presentato dall’Istat a luglio scorso al fine di fotografare la situazione del nostro Paese sotto diversi punti di vista, diventa una importante occasione per ravvivare il dibattito interno in tema di politiche educative e giovanili, atteso che dalle analisi emerge un quadro di allarmante vulnerabilità a descrivere la condizione esistenziale delle nuove generazioni.

Anche se l’idea di un contributo attivo dei giovani nell’attuazione delle diverse transizioni sollecitate dal Programma Next Generation EU appare ampiamente condivisa dai Paesi comunitari, nel Rapporto vengono in negativo confermate tutte quelle forme di fragilità (fra le altre, la mancanza di prospettive future, la bassa partecipazione dei giovani al mercato del lavoro, ai percorsi educativi e scolastici, alla vita civica e politica, la sfiducia verso le istituzioni e i parlamentari) che anche secondo la letteratura scientifica nazionale e internazionale hanno caratterizzato l’età evolutiva e la giovinezza durante e in seguito la pandemia da COVID-19, a testimonianza dell’incapacità dell’adulto di mappare e soddisfarne i bisogni evolutivi e/o inediti e quindi di investire intenzionalmente e preventivamente su un modello di welfare con gli adolescenti e i giovani e al contempo “capovolto” davvero in grado di realizzare un percorso di ripresa e resilienza collettivo1.

In conclusione, dal Rapporto emerge che nel nostro Paese i giovani che nel 2022 hanno mostrato un segnale di deprivazione, in almeno uno dei cinque domini utilizzati dall’Istituto per misurarla (Istruzione e Lavoro, Coesione sociale, Salute, Benessere soggettivo e Territorio), sono 4 milioni 870 mila; ovvero il 47,7% nella fascia di età compresa tra i 18 e i 34 anni, mentre 1,6 milioni (15,5%) sono i giovani nella stessa fascia di età che risultano addirittura multi-deprivati.

Quest’ultima condizione di multi-deprivazione è altresì più diffusa tra i 25 e i 34 anni (il 17,2% contro il 12,9% dei giovani nella fascia di età compresa tra i 18 e i 24 anni) e più accentuata nelle regioni del nostro Mezzogiorno (che comprende Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise e Puglia) (il 19,5% contro il 13,7% al Nord e il 12,3% al Centro).

Alla luce di questi preoccupanti dati, possiamo senza dubbio dire che la parola principale della costellazione simbolica necessaria oggi per immaginare il Welfare giovanile e “capovolto” del domani è proprio fragilità.

Una fragilità esistenziale già esistente che la crisi sanitaria da COVID-19 ha soltanto messo in risalto, alla stregua di un deciso tratto di evidenziatore fluo, e che nello specifico si è concretizzata in un sostanziale incremento dei disturbi d’ansia e dell’umore e nei tentativi di suicidio purtroppo triplicati durante la preadolescenza e l’adolescenza dal 2021 in poi2.

Nel tentativo di far comprendere al lettore attento l’inadeguatezza delle politiche, nello specifico, sanitarie adottate nei confronti dei giovani, segnaliamo pure che a fronte dell’aumento del numero di bambini affetti da disturbi psichiatrici e neurologi, anche come conseguenza della pandemia, non corrisponde ancora un’attenzione e una cura adeguata, dal momento che i posti letto nei reparti di neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza disponibili su tutto il territorio nazionale sono soltanto 3953.

Per spiegare e con rigore scientifico confermare “plasticamente”, se si lascia passare il termine, l’attuale e infecondo adultocentrismo, la frattura comparsa tra le generazioni a cavallo tra i due millenni e la fragilità esistenziale dei minori e dei giovani di oggi, possiamo ragionare attorno ad una serie di fenomeni nuovi e disfunzionali osservati sia empiricamente, dunque nel quotidiano della pratica educativa e/o clinica di molti professionisti della relazione educativa e di cura, sia raccontati più in generale dalla cronaca degli ultimi decenni.

Oltre al raddoppio e più della disabilità certificata nella nostra scuola in circa vent’anni (per essere più precisi dall’anno scolastico 1997/1998 all’anno scolastico 2017/2018 si è passati da 123.862 a 268.246 unità e mentre scriviamo siamo ormai a 316.000 unità), un dato che personalmente non giustifico in via esclusiva in ragione di un maggiore impegno dei clinici nella formulazione delle diagnosi, ma in un’ottica evidentemente sistemicoecologica anche come conseguenza dell’attuale crisi multilivello (sociale, educativo-genitoriale, istituzionale, democratica, ambientale, bellica, idrogeologica, migratoria, ecc.), sono aumentate anche le problematiche legate alla sfera emozionale dei minori come i disturbi della condotta e i disturbi oppositivo-provocatori4.

Negli anni poi, indubbiamente traumatici, dell’emergenza pandemica e subito dopo dell’emergenza bellica in Ucraina, ho osservato una vera e propria progressione di in-abilità emotivo-affettive e socio-relazionali nei bambini e nei giovani, come le forme contemporanee e “intelligenti” di bullismo e di cyberbullismo5, il fenomeno delle baby gang (la comunità di Manduria, in provincia di Taranto, ha dovuto affrontare purtroppo prima di altre la dolorosa vicenda della gang degli “orfanelli” accusati nientemeno del reato di tortura), ancora quello del revenge porn, le sfide di soffocamento in presenza e on line, infine le maxirisse tra la prima e la seconda ondata pandemica.

Eravamo infatti tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 quando, per la prima volta nello scenario italiano, centinaia di minorenni provenienti da ogni angolo della provincia capitolina, circa 400, si riunirono a Roma sul colle Pinciano per picchiarsi fra loro.

Purtroppo, dopo qualche settimana accadde pure a Gallarate (VA) e a Modena, probabilmente come reazione a un’eccessiva compressione delle progettualità personali causata anche dalle restrizioni e dalle misure di contenimento in vigore al tempo.

Ancora più recentemente, per fare soltanto uno degli esempi possibili per descrivere i sintomi durevoli nel tempo e la condizione di estrema vulnerabilità indagata da chi scrive questo contributo, ho osservato nei giovani una iper-maturazione del monologo interiore e cioè il tentativo di semplificare la complessità degli eventi traumatici fronteggiati e insieme di attribuirne un senso però in estrema solitudine6.

La domanda che dobbiamo porci è allora questa: perché una così estrema reazione di chiusura narrativa nei confronti dell’altro va sempre più diffondendosi?

Proviamo a spiegarlo attraverso la commovente serie horror sudcoreana dal titolo Non siamo più vivi, vista da milioni di adolescenti e giovani nel mondo durante la pandemia, che ha sottolineato più di altre le storture della società contemporanea e di conseguenza messo in luce il “teen drama” dell’epoca.

La serie racconta la fuga di un gruppo di liceali da un’orda di zombie, che rappresentano evidentemente la parte più moribonda di una società autoreferenziale e autodistruttiva come la nostra, ma soprattutto la speranza di incontrare qualche adulto responsabile che possa ancora salvarli.

In ogni puntata della serie i liceali invocano infatti l’aiuto degli adulti, un genitore, un professore, un politico, ma questi stentano ad arrivare.

Quando alla fine i sopravvissuti li avvistano dal tetto della scuola, dove hanno trovato riparo, acceso un fuoco per scaldarsi di notte e realizzato un enorme SOS con i banchi rotti per farsi individuare, questi adulti bombardano incredibilmente ogni cosa con l’idea di isolare la pandemia di zombie.

Dunque, l’adulto di oggi ha come ceduto il passo al mostro interiore, perdendo così di vista i minori, i giovani e i bisogni evolutivi, quelli indubbiamente indispensabili alla crescita e al loro progetto di vita indipendente.

Possiamo in altro modo dire, però fuori dai linguaggi e dai temi della serialità televisiva contemporanea,che nel nostro tempo l’adulto ha perduto il contatto con gli aspetti più antichi della sua persona, dunque con la sua parte bambina, quelli cioè che trovano fondamento nell’infanzia vissuta in relazione e in larga parte del tempo giocando.

Di conseguenza, non disponendo più di orecchi pronti ad ascoltare, di comunità narrative, di adulti genuinamente disponibili ad aiutarli dinanzi ai traumi massivi e relazionali del momento, ancora di modelli a cui ispirarsi e tendere (i modelli sono a ben vedere anche planetari e non unicamente familiari, ma i conflitti nel mondo hanno sgretolato pure quelli ai loro occhi), i giovani hanno smesso di raccontare e raccontarsi tenendo la narrazione di Sé nella loro mente in un momento così complesso della storia dell’umanità.

Pertanto, parlare tra sé e sé, un’opzione narrativa di certo pericolosa quand’è così rigida, dalla pandemia in avanti ha aperto facilmente la strada alla deriva depressiva che rende ancora vulnerabili moltissimi nostri ragazzi.

Ritornando ora a interpretare i tentativi suicidari triplicati negli ultimi anni in Italia, capiamo bene, se diciamo che la persona altro non è che una storia di vita che desidera essere raccontata (raccontarsi è per chi scrive il bisogno più importante per le biografie di ciascuno), come questi tentativi siano stati e siano tuttora un richiamo; dei mayday lanciati di continuo verso adulti assenti e generalmente in-ascoltanti.

Una seconda parola che dobbiamo introdurre nel dibattito politico attuale al fine di progettare, con urgenza, il Welfare giovanile e “capovolto” del domani è indubbiamente transizione all’età adulta.

Per la letteratura scientifica sviluppatasi nell’ambito degli Youth Studies7, i processi di mutamento economico e sociale che hanno caratterizzato la società a partire dagli anni Ottanta del Novecento hanno coinvolto maggiormente i giovani, sempre più costretti a ritardare la transizione all’età adulta anche a causa dell’incertezza attuale e della crisi, abbiamo detto, multilivello.

Infatti, i percorsi biografici non seguono più le tradizionali e standardizzate tappe evolutive del passato (compimento degli studi, inserimento stabile nel mondo del lavoro, autonomia abitativa, matrimonio, genitorialità), per cui i giovani sono costretti a vivere vere e proprie transizioni yo-yo8, ovvero periodi che si caratterizzano per alternanze cronologiche di passi in avanti e inversioni di marcia irregolari e spesso dolorose da un punto di vista esistenziale.

Lo studio delle vite dei giovani, cioè la comprensione dei modi in cui questi le costruiscono, non può quindi prescindere dall’analisi dei processi di delinearizzazione e de-tradizionalizzazione delle traiettorie biografiche nella società contemporanea; individualista, “liquida”9 rispetto allo spessore affettivo delle relazioni umane, “evaporata”10 o addirittura “gassosa”11 se ci riferiamo in particolare alla scomparsa dei padri autorevoli in famiglia e, abbiamo detto globalmente, di modelli da prendere d’esempio nella società.

Di conseguenza, la soglia che separa la giovinezza dalla vita adulta, dunque una condizione di dipendenza da una condizione di piena autonomia, si è spostata in avanti; si è come “allungata”.

Questo processo di “allungamento” della transizione all’età adulta dipende da una combinazione di fattori come i mutamenti sociali, la situazione occupazionale, il regime di welfare esistente, le politiche educative e sociali adottate (che spesso non favoriscono la connessione tra scuola e mondo del lavoro), ancora le strutture familiari e le norme sociali.

In modo evidente, guardando per esempio molte abitazioni delle comunità del Sud del nostro Paese, costruite dai genitori per permettere ai figli di poter completare eventualmente un loro appartamento ancorandolo ai pilastri lasciati in evidenza sui solai, possiamo comprendere come il tema delle transizioni alla vita adulta dei giovani sia “intimamente” legato alla nostra cultura; una cultura che non coltiverebbe in particolare le autonomie, anzi paradossalmente le limiterebbe.

In effetti, mentre nei paesi scandinavi la spesa pubblica è in particolare investita per favorire lo sviluppo personale dei giovani intesi cittadini con piena titolarità di diritti, nei paesi dell’Europa Meridionale (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) il modello di transizione sarà invece sub-protective, ossia incentrato su programmi di sostegno al prolungamento del percorso educativo, di formazione professionale o lavorativo attraverso incentivi all’assunzione per imprenditori (in realtà stimoli insufficienti piuttosto che piani occupazionali consapevoli) o supporti all’auto-impiego giovanile12.

Sul punto, anche le nostre Università, fra le altre agenzie educative, dovrebbero impegnarsi in maggior misura per favorire il prima possibile l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro (ad esempio attraverso convenzioni e sperimentazioni che restituiscano precocemente ai tirocinanti il senso profondo della professione scelta operando direttamente nei contesti di esperienza studiati sui libri testi), fermo restando l’importanza fondamentale e strategica di una formazione permanente e dunque intesa per tutto l’arco della vita.

Un impegno che, per chi scrive, dovrebbe sin da subito accelerare dal momento che la percentuale dei suicidi fra i giovani universitari è anch’essa in aumento; segnale che la salute mentale non si raggiunge soltanto con la cultura e le prove di profitto, ma necessita sempre più di spazi di racconto e di progetto specialmente negli anni cruciali in cui i giovani cercano di capire (quasi sempre da soli) chi sono e in che modo possono contribuire a questo mondo secondo i propri talenti (quasi sempre nascosti e non svelati).

Lo ripeto ovunque mi invitino a parlare di adolescenti e giovani, l’adulto deve smettere di parlare loro di un posto di lavoro, aiutandoli invece a capire come mettere al servizio delle comunità e degli altri individui le loro inclinazioni più belle.

Nello specifico i giovani italiani, secondo alcuni autori l’esemplificazione più emblematica di un modello di transizione all’età adulta «mediterraneo»13 che favorisce senza rendersene conto la permanenza prolungata nella casa natale, rischiano però di vedersi asfissiare più di altri le autonomie e indebolire così le progettualità che li riguarderebbero.

La nostra giovinezza, per diverse ragioni lunga, non esplorativa, dell’attesa, sofferente, dipendente, vittima di un presentismo costruito come abbiamo visto culturalmente, che rumina piuttosto di riflettere, che ancora sente di non aver futuro, che non studia, né lavora (secondo le statistiche Eurostat nel 2022 un giovane su cinque tra i 15 e i 29 anni non studia e non lavora), che non riesce più facilmente a entrare in relazione con l’altro e pertanto struttura relazioni affettive sempre più tossiche e limitanti, esige una classe politica alla sua altezza che non banalizzi più il discorso che la riguarderebbe da vicino.

Se vogliamo, ad un’analisi più attenta e colta, anche i femminicidi di cui tutti dovremmo vergognarci sono profondamente legati alle transizioni sempre più “allungate” e limitanti le autonomie (morali, di pensiero, di azione, professionali, economiche, abitative, ecc.) dei nostri giovani.

La nostra giovinezza esige una classe politica capace di cancellare una volta per tutte la sterile retorica dei fannulloni, nella quale si è pericolosamente incagliato il dibattito attuale, o della mancanza di volontà dei giovani specialmente nei mesi estivi e in relazione al lavoro stagionale, e che sia al contrario capace di adottare questa volta sì una visione lunga, perfino lunghissima se si vuole, poiché grazie a questa nuova e di lungo respiro prospettiva il nostro Paese continuerà a esistere in futuro spinto dallo splendore e dall’originalità di una moltitudine di progetti di vita giovanili rimessi finalmente come in moto.

Come possiamo allora aprire velocemente gli occhi, uscire dalla cecità verso un tema così rilevante nella quale gli adulti sono piombati da decenni, cambiare “lenti” e osservare con intenzionalità educativa e politica il futuro di milioni di giovani e, di conseguenza, del nostro Paese?

La risposta passa dalla sperimentazione di un modello di welfare diffuso, di prossimità e con i giovani che definisco “capovolto”; la terza e ultima parola di una prima costellazione di parole che ci siamo dati all’inizio di questo contributo (ce ne saranno altre ancora da esplorare insieme).

Con la mente ancora turbata dagli inenarrabili fatti di cronaca di Caivano dell’estate scorsa, è chiaro che offrire ai minori la possibilità di uscire dai “deserti” affettivi nei quali, senza colpa, sono venuti al mondo sia un compito tutto delle istituzioni.

Qui entra in ballo uno dei costrutti ai quali sono più affezionato scientificamente parlando, la genitorialità diffusa, che può rendere possibile l’incontro con innumerevoli padri e madri alternativi, ma significativi da un punto di vista affettivo e orientativo.

Un educatore che insegna i giochi tradizionali e di strada ai bambini di Caivano, come di ogni altra periferia del nostro Paese, che si siede sotto un portico fra loro per intavolare una lettura ad alta voce di albi illustrati, che si offre ancora come “sponda” emotiva per comprendere una problematica individuale o familiare, che diventa pure “porto” sicuro se il problema è davvero insormontabile, diventa a tutti gli effetti un genitore.

Per questo, praticare un modello di welfare con i giovani di prossimità e ad un tempo diffuso, oltre a recuperare un ritardo istituzionale verso quella poderosa rottura epistemologica che l’approccio sistemico-ecologico ha illustrato oramai nella seconda metà del Novecento e cioè investire su una “ecologia delle relazioni” che possa fornire ai minori specie in difficoltà famiglie sociali in aggiunta alle biologiche, significa vedere gli operatori della relazione educativa e di cura impegnati a svolgere la loro attività professionale in maggior misura sui territori piuttosto che nelle sedi a questi tradizionalmente assegnate (servizi sociali professionali, consultori familiari, centri di ascolto, spazi neutri, dipartimenti di psicologia clinica, centri per l’elaborazione del trauma, ecc.).

Soltanto quando un educatore uscirà dalla comunità educativa nella quale opera per abitare nuovamente le comunità sociali de-pensate del nostro Paese, un poliziotto si fermerà fra i vicoli impervi a parlare con un ragazzo a rischio nel tentativo di insegnargli che il viaggio della vita è più sicuro e appagante se fatto dentro le regole che una comunità si è data, o ancora un insegnante investirà sui volti piuttosto che sui voti, saremo nelle condizioni politiche di “restare” più a lungo nella testa di questi minori in difficoltà e cioè di essere introiettati ognuno per le qualità che saprà esprimere.

Solo allora, per concludere, avremo risposto ai tanti bisogni evolutivi ora interdetti dei nostri bambini, adolescenti e giovani fragili e, in un certo senso, realizzato fondamenta robuste sulle quali ri-costruire il nostro Paese spaesato.

* Attualmente è ricercatore in Pedagogia sperimentale presso l’Università Telematica Pegaso, aggregato presso il Centro Interuniversitario di Ricerca “Popolazione, Ambiente e Salute” (CIRPAS) dell’Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari, commissario e docente per il corso di specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità presso l’Università degli Studi Internazionale di Roma e Giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Taranto.

Note bibliografiche

  1. Cfr. F.P. ROMEO, Sollecitare la resilienza. Emergenze educative e strategie didattiche, Erickson, Trento, 2020.
  2. Cfr. F.P. ROMEO, Gli adolescenti dell’era Covid. Emergenze, disagio esistenziale e immagini del domani, in A. MONGELLI, (a cura), Altri modi di apprendere. Sociologia, Psicologia e Pedagogia in dialogo, Diogene Edizioni, Napoli, 2021; Cfr. G. LONGO, Generazione a rischio, in «L’Espresso», 13, 2021; Cfr. Chiusi in casa, zero scuola e genitori ostili: boom di adolescenti che tentano il suicidio, 2021. Documento disponibile al seguente sito: https://www.lastampa.it/topnews/primo-piano/2021/02/04/news/chiusiin-casa-zero-scuola-e-genitori-ostili-boom-di-adolescenti-che-tentano-il-suicidio1.39856996/
  3. Il documento di sintesi del Tavolo tecnico sulla “Salute Mentale”, istituito nel 2021 dal Ministero della Salute, indica che nel 2018 vi sono stati 43.863 ricoveri di minori per motivi psichiatrici di cui solo 13.757 in reparti di NPIA, con il 20% ricoverati nei reparti psichiatrici per adulti.
  4. Cfr. MIUR, I principali dati relativi agli alunni con disabilità. Anno scolastico 2017/2018,

     Ufficio       Gestione       Patrimonio        Informativo       e       Statistica,        2019;

https://www.miur.gov.it/web/guest/-/scuola-on-line-i-dati-sugli-studenti-condisabilitariferiti-all-anno-2017-2018
  • Chi ha esperienza di insegnamento o di formazione nella scuola è sempre più consapevole che i comportamenti oppositivo-provocatori del bullo non sono oggi tanto appresi all’interno di famiglie dove ci si comporta solitamente con violenza, piuttosto nella relazione con genitori che in generale non sono in grado di assumere genuinamente il loro punto di vista, fatto di desideri e al contempo di progetti, sul mondo. Nell’interpretare i bullismi del nostro tempo, stiamo in altre parole dicendo che gli insegnanti del terzo millennio si affidano scientificamente sempre meno alla teoria banduriana che vede la violenza dei figli appresa per imitazione di un modello familiare negligente e condividono invece maggiormente la prospettiva del difetto di mentalizzazione e quindi dell’attuale incapacità degli adulti di “tenere a mente” i bisogni dei propri figli. [Cfr. F.P. ROMEO, Smontare i bullismi per comprenderne la complessità: per una Scuola inclusiva che

“tiene a mente”, in C. SORRENTINO, (a cura di), Contesti, presenze, responsabilità, Giapeto, Napoli, 2018].

  • Cfr. F.P. ROMEO, Investimento affettivo nei processi di insegnamento-apprendimento. Tre criteri per la didattica a distanza nelle emergenze, in «Open Journal of IUL University», 2, 3, 2021 e, dello stesso autore, Insegnare e apprendere nelle emergenze: scritture resilienti, in «Quaderni di didattica della scrittura», 38, 2, 2022 e, ancora, Insegnare e apprendere nelle emergenze: scritture resilienti, in «Quaderni di didattica della scrittura», 38, 2, 2022. 
  • Cfr. A. FURLONG, Youth Studies: An Introduction, Routledge, London, 2013; Cfr. A. Furlong, D. WOODMAN, Introduction: Youth Studies – Past, Present and Future, in A. FURLONG, D. WOODMAN, (eds.), Youth and Young Adulthood (Vol. 1 Perspectives), Routledge, London, 2014.

7 Cfr. A. BIGGART, A. WALTHER, Coping with Yo-Yo Transitions: Young Adults’ Struggle for Support, between Family and State in Comparative Perspective, in C. LECCARDI, E. RUSPINI, (a cura di), A New Youth? Young People, Generations and Family Life, Aldershot, Ashgate, 2006.

  • Cfr. Z. BAUMAN, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2002.
  • Cfr. M. RECALCATI, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano, 2011.
  • Cfr. F.P. ROMEO, Verso una modernità gassosa? Tra stati di materia e cambiamenti sociali, in «Amaltea», 2/3, 2006.
  • Cfr. A. WALTHER, Regimes of Youth Transition: Choice, Flexibility and Security in Young People’s Experiences across Different European Contexts, in «Young», 14, 1, 2006.
  • Cfr. A. CAVALLI, O. GALLAND, L’allongement de la jeunesse,Actes Sud, Paris, 1993.

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